Sono 90 le fotografie originali di altrettante artiste fotografe presenti nelle sale della Fondazione Luciana Matalon di Milano dall’8 ottobre al 28 novembre 2021 che raccontano il punto di vista femminile in campo fotografico e il suo processo di evoluzione nell’arco di quasi un secolo, con opere che vanno dal 1925 fino al 2018.
Molti i nomi di rilievo: da Diane Arbus a Margaret Bourke-White, da Lisetta Carmi a Regina José Galindo, passando per Gerda Taro, Lisette Model, Sandy Skoglund, Marina Abramovic, Tina Modotti, Gina Pane, Francesca Woodman, Nan Goldin, Sophie Calle, Cindy Sherman, Inge Morath, solo per citarne alcuni.
Due sono i nuclei tematici attorno ai quali si è andato costruendo il corpus delle opere selezionate: quello dell’empatia e quello della ricerca dell’identità, individuati dai curatori come peculiari dello sguardo e del contributo femminili all’arte fotografica. «La produzione artistica femminile si distingue da quella maschile – spiegano – per una specificità determinata da una sensibilità distinta per ragioni di natura, di cultura, di ruolo sociale. Da un lato la donna è influenzata dal proprio ruolo di madre, che la rende empatica e sensibile alla sopravvivenza e al benessere umano. Il secondo tema trainante è quello dell’identità in ambito sociale, sentita come compressa o inespressa».
I due macro-temi sono poi declinati in un percorso espositivo suddiviso in quattro capitoli: “La ricerca del sé tra identità femminile e ruoli sociali”, “Simpatie”, “Donne, moda, costume”, “Sul pezzo. Dentro all’attualità”.
Empatia umana che si ritrova anche nelle immagini di violenza, di guerra, di emigrazione, di paura, di Letizia Battaglia, Christine Spengler – che si concentra sulla fotografia di guerra colta dal punto di vista delle sue vittime: Le bombardement de Phnom-Penh del 1975 è il suo scatto presente in rassegna –, Regina José Galindo, Yto Barrada, o nelle distopie di Sandy Skoglund.
Un più universale e onnicomprensivo sentimento di empatia è invece quello che alimenta la creatività di artiste come Tina Modotti, il cui tema cardine è la denuncia delle condizioni di miseria in Messico, ben rappresentato nell’esposizione dall’opera Bateau et pêcheurs del 1925, e Gina Pane che nello scatto Deuxième projet du silence mette in gioco sé stessa e il suo corpo. Attraverso il loro sguardo il paesaggio si trasforma in territorio, nello spazio aperto ed amico di una umanità finalmente liberata da costrizioni, confini, conflitti.

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